2012
LUCA MOLINARI

Se guardo al lavoro di Velasco Vitali, localizzato criticamente e per buona pace di tutti nell’alveo rassicurante del realismo figurativo italiano, non riesco solo a vedere un autore che registra virtuosamente e con stile percorsi prefissati, ma vedo, soprattutto, un inquieto ascoltatore delle realtà che viviamo e che sembriamo non guardare più con attenzione e amore.
Duro il destino del narratore per immagini in un’epoca di cinismo figurativo e sguardo-zero per eccesso di materia nei nostri occhi e nelle nostre menti.
Duro il percorso di un artista in una fase in cui, probabilmente, per cambiare prospettive su quello che cerchiamo e creiamo, sarebbe necessario cambiare radicalmente estetica dello sguardo e rivedere le categorie filosofiche e concettuali con cui nominiamo e usiamo le cose e gli atti della nostra vita.
Eppure potremmo ancora confidare nell’ossessiva necessità che vive in ogni vero creatore quando deve rispondere alle richieste del proprio corpo e della propria anima di dare forma a quello che preme dentro, indipendentemente dalle difficoltà esterne e dalla condizione in cui opera.
Ma questo potrebbe non bastare. Dopo un secolo (appena passato) di metamorfosi radicale del concetto d’arte, di visioni alterne, conflittuali e contrapposte, d’implosione di visioni, soluzioni, parole d’ordine, manifesti, movimenti, rotture, funerali, rinascite, l’arte sembrava vivere, come tante altre discipline umanistiche, una fase in cui il suo ruolo salvifico ne veniva definitivamente relativizzato, per essere apparentemente costretto nell’ambito dell’esperienza e del consumo individuale. O, almeno, così sembrava. Perché all’interno di questa fase storica di crisi e messa in discussione profonda di molti dei nostri punti di vista e delle nostre rendite di posizione, si sta affacciando l’idea che alle arti si possa tornare a chiedere di rendere conto del proprio ruolo sociale e dei significati di cui potrebbero essere portatrici nel prossimo futuro.
Non alludo unicamente a quella dimensione partecipativa e “politica” dell’arte che continua a costruire esperienze di confine spesso straordinarie e necessarie per rimescolare le carte delle nostre “stanche” discipline, ma, piuttosto, al valore di senso e di lenimento che ogni esperienza artistica di qualità potrebbe rappresentare non solo nella vita di ogni singola persona, ma soprattutto per le diverse, instabili comunità che incontra nel grande paesaggio metropolitano che abitiamo tutti i giorni.
Forse, per tornare a produrre narrazioni collettive condivisibili e per dare corpo e sostanza a quei simboli e immagini capaci di nutrire ancora la nostra memoria interiore, l’arte possiede quegli elementi potenti e arcaici che ci aiuterebbero a uscire dalle secche di un secolo ormai alle spalle.
Ci sono autori, infatti, che stanno silenziosamente provando a mettersi in discussione e a riallacciare le trame per una possibile forma narrativa che, da personale e locale, possa diventare condivisa e universale, aprendo a scenari differenti e capaci di guardare avanti a noi.
Si tratta di creatori che incrociamo in discipline molto diverse tra di loro, dall’arte tradizionale alla fotografia, dalla cucina passando per il paesaggio, la grafica e la poesia, ma che sono accomunati da una bruciante curiosità che cerca di rimettere in discussione, spesso silenziosamente e in luoghi laterali dalle grandi, affollate, rotte, le parole chiave, gli strumenti, i punti di vista con cui abitualmente interpretiamo la realtà e le visioni che la plasmano.
E il lavoro di Velasco Vitali, che incontra e disvela alcuni frammenti dell’Isola Grande nel suo nuovo lavoro intitolato Foresta Rossa, acquisisce un senso diverso se osservato da questa prospettiva.
Non si tratta unicamente di semplici reazioni poetiche a un luogo magico e unico come l’isola che lo accoglie, ma questi interventi hanno dentro di sé l’idea che l’arte ci possa ancora aiutare a ricostruire narrazioni complesse, a riallacciare fili che sembravano spezzati e che legano miti semplici alla potenza naturale dei luoghi, visioni e sensi della realtà che torniamo ad annusare, toccare e assaggiare.
Il lavoro di Velasco sul proprio immaginario personale e lacustre si tramuta nelle diverse stazioni pensate per l’isola in una narrazione universale che va oltre la semplice autobiografia per metterci in contatto con la forza potente del sogno e dei simboli che è capace di risvegliare. E non è un caso che il lungo percorso che ha portato Velasco a scegliere la scultura e le forme libere nello spazio reale sia partito da una ricerca ossessiva e visiva sulla forma e la pasta della città contemporanea.
Una ricerca che è partita con alcuni luoghi reali, tutte quelle città del Sud Italia e Milano, che progressivamente si spogliavano dei simboli riconoscibili per diventare carne viva, impasto denso, materia e luce, come a tornare da una parte alle radici impressioniste, scomposte della città ottocentesca, e, insieme, alla materia in cui corpo dell’architettura e carne viva di chi la abita si compongono insieme, urlano e respirano con affanno amoroso e dolente a esprimere quella metamorfosi che chiamiamo oggi metropoli globale.
Ma la ricerca non si è fermata a questo semplice stadio; una fase che tra l’altro si è mossa in parallelo ad altri artisti e fotografi, soprattutto italiani, che hanno sentito il bisogno di tornare alla città e alla sua forma d’insieme come per rintracciare quelle matrici e quelle forme che esprimessero al meglio la trasformazione in corso. Non si è fermata alle città abitate e si è progressivamente spostata verso un’indagine silenziosa e ossessiva sulle centinaia di città fondate, costruite e poi abbandonate dall’uomo nel corso della Storia. In questo lunghissimo elenco Velasco cercava Babele, la prima delle metropoli costruite contro Dio e gli uomini e poi abbandonata, ma, insieme, indagava la pasta resistente della follia umana che si fa cristallo, forme geometriche, luoghi che vivono malgrado tutto e a monito sublime e terribile di quello che rischiamo.
E questa importante tappa nel percorso artistico di Velasco non poteva che integrare pittura a produzione di oggetti liberi nello spazio aperto dell’Isola Madre, legando l’esterno del grande giardino agli interni densi e carichi di memorie e storie di palazzo Borromeo.
E così, una serie di tele dedicate ad alcune delle città abbandonate si nascondono nell’interno della villa a moltiplicare i giochi, i riflessi, i rimandi visivi e simbolici tra gli splendidi teatrini settecenteschi e le immagini sublimi e misteriose di queste città che riecheggiano solo di se stesse e della propria memoria perduta.
Con Foresta Rossa Velasco Vitali compie lo sforzo di produrre una generosa e potente narrazione circolare in cui luoghi reali, simboli sognati, città perse nell’oblio, natura, sguardi di chi abiterà i luoghi e l’isola stessa, concorrono a generare un grande racconto in cui sarà bello e necessario perdersi.
È come quando da ragazzini si giocava a lasciarsi andare all’indietro sperando che il compagno, all’ultimo, non avrebbe mollato la presa; si tratta di un grande sforzo di fiducia che ti ripaga dell’emozione momentanea di sentirsi cadere nel vuoto per poi essere salvato.
In fondo è questo che Velasco ci chiede, con la grazia e la gentilezza silenziosa che segue il suo lavoro: di lasciarci andare, di perderci almeno un attimo in questa emozione inaspettata, nella foresta rossa evocata dalla nostra immaginazione.