2015
GIACINTO DI PIETRANTONIO

PRIMO QUADRO: ETERNITÀ
Ancor oggi, ma questo è soprattutto un cruccio italico, ci s’interroga sull’attualità, necessità, realtà della pittura; un provincialismo modernista nazionale e naturalmente fuori tempo massimo per un Paese che la modernità non l’ha mai veramente accettata. Cerchiamo da subito di capirne il perché, non del rifiuto della modernità, ma dell’eternità della pittura, invitandovi ad un semplice esperimento.
Provate a pensare a un pittore, in questo caso Velasco, che vi parla, senza mostrarvelo, di un paesaggio, una figura, un soggetto, qualunque esso sia, che sta dipingendo, chiedendovi cosa ne pensate. Quindi, provate a pensare se quel dipinto, che vi mostrerà non appena l’avrà terminato, possa essere, o no, un bel quadro. La risposta è che non siamo onestamente in grado di esprimere alcun giudizio, perché un dipinto, qualunque sia il soggetto, bisogna vederlo finito per dire se funziona, o meno, se è un’opera riuscita o no. Ciò si comprende ancora meglio se ci facciamo questa domanda per un’opera non pittorica; ci accorgiamo che, almeno al cinquanta per cento, se non di più, possiamo dare una risposta. Non è solo una questione di estetica, ma anche di tecnica, perché questo cinquanta e più per cento di probabilità di risposta vale anche per il video, la fotografia e molte altre tecniche artistiche, tranne che per la pittura. Badate bene, non sto, con questo, dicendo che la pittura è migliore della fotografia, o del video, eccetera, o viceversa; voglio solo sostenere che la pittura, per sua ontologia, dev’essere realizzata per poterne dare un giudizio. Questo fa sì che la pittura non può mai morire, che è sempre necessaria e che, quindi, ha sempre una sua attuale vitalità alla faccia di quelli cui piacerebbe vederla morta.

SECONDO QUADRO: PRESUNZIONE
La pittura è sempre un atto di presunzione su se stessa e sulle altre tecniche, perché è un mezzo manuale che trae nutrimento, oltre che dalla sua natura, anche dal confronto con le altre tecniche, soprattutto con quelle limitrofe della “riproducibilità tecnica” (Benjamin), che compongono il paesaggio mediatico moderno e contemporaneo. Anche qui la minaccia è stata sventata, e la quantità-qualità produttiva della riproduzione, che avrebbe dovuto far fuori la pittura, ha finito per non costituire un ostacolo per la qualità creativa della pittura stessa, anzi ne è diventato uno stimolo. Come molta pittura insegna, essa ha tratto vantaggio da questo confronto, raggiungendo risultati ragguardevoli. C’è da dire che ci sono artisti direttamente coinvolti in questa relazione e altri che non riempiono lo studio di appunti fotografici, immagini da rotocalchi, o della televisione e via dicendo, ma vanno a memoria, perché le immagini riprodotte sono intorno a noi e, in tal modo, dentro di noi. Per inciso c’è da dire che non bisognava aspettare tanta modernità, dato che la riproduzione dell’opera d’arte esisteva anche prima della fotografia con le tecniche dell’incisione.

TERZO QUADRO: CANCELLAZIONE
Da quest’ultima sponda tecnica nasce parte della mostra in questione se, come ci assicura Velasco, alcune opere sono ispirate a una veduta di Venezia del XVI secolo di Jacopo de’ Barbari. Si tratta di un’immagine, facente parte di una serie di xilografie, che l’artista del Rinascimento ha dedicato alla città lagunare, in cui il contrasto segnico nero-bianco dà a questa grande opera di cartografia urbana un forte carattere. Questo ha ispirato a Velasco le città in bianco e nero con le griglie metalliche sovrapposte all’immagine sottostante. Insomma, la tecnica di riproduzione antica dell’incisione viene destrutturata e i segni sottratti vengono posti a galleggiare sulla tela in modo che l’iconografia sottostante appaia come cancellata costringendo lo spettatore a compiere uno sforzo visivo per mettere a fuoco l’immagine tutta. L’insieme sembra come una superficie cancellata, fatta di più piani visivi e tanti pentimenti. D’altra parte, non bisogna dimenticare che la messa a fuoco meccanica della fotografia e quella della pittura impressionista nascono nello stesso periodo nutrendosi a vicenda.

QUARTO QUADRO: TRADIZIONE
Inutile negarlo, in ogni opera c’è tradizione, un passato da cui non ci si può giustamente liberare, perché non è chiusa, ma sempre forma aperta. In Verità e metodo Gadamer insegna che Ermeneutica e decostruzionismo insegnano che “Ciò che riempie la nostra coscienza storica è sempre una molteplicità di voci, nelle quali risuona il passato.” In questo caso c’è una tradizione nel solco della quale la pittura cresce dalle origini ai giorni nostri, tradizione che non è solo quella del colore, della materia e dell’immagine, ma anche della misura dello spazio, dato che le opere in questione in molti casi sono opere di spazi non misurabili e non euclidei, perché frammentati, larvali e astratti, nella maggior parte dei casi tali da rendere quasi irriconoscibili i siti di partenza, pur conservandone le tracce. Qui la “divina proportione” è saltata e alla filosofia estetica rinascimentale ed aurea di Pacioli e Leonardo si è sostituita quella liquida e dei non luoghi di Bauman e Augé. Tranne in rari casi i luoghi di Velasco non sono riconoscibili, potrebbero essere qualunque luogo, ogni luogo, insomma il fallimento del luogo con la memoria aperta a tutti i luoghi. Per cui benché il quadro mostri un suo spazio definito allude a uno squilibrio dello spazio e alla contraddizione dell’ordine dei luoghi del mondo.

QUINTO QUADRO: FALLIMENTO
Come detto, tutto ciò non pone la pittura né al riparo, né al di sopra delle altre tecniche, perché la pittura stessa è fatta anche di molti fallimenti, errori di cui non bisogna aver paura, ma anzi un pittore sapiente volge sempre a proprio vantaggio i fallimenti, soprattutto i propri. Gran parte della storia della pittura, nonché la storia dell’arte moderna e contemporanea, non esisterebbe se gli artisti non avessero deciso di volgere a proprio vantaggio questo territorio della sconfitta, come avviene in alcune arti in cui si sfruttano gli errori del nemico. Maestri di questo approccio fallimentare vantaggioso all’arte sono, non a caso, Picasso e Duchamp che hanno tra i primi spianato il campo. Tra iperattivismo e indolenza, quello che, per prima cosa, ci hanno insegnato è di approfittare di non aver paura delle nostre debolezze, delle nostre paure, dicendoci che noi e la nostra epoca siamo soprattutto questo fallimento. In più, carburati da Nietzsche che vede fallire l’Occidente, alcuni artisti invece di rispondere con un gesto di potenza hanno pensato al suo contrario fino a chiedere provocatoriamente aiuto non al superuomo nicciano, ma al dilettante, anche se colto e sofisticato, oppure all’innocenza creativa del bambino tra le più difficili da eguagliare, perché esperito nello stato di grazia del gioco. Da tutto questo Velasco sembra aver tratto insegnamento, tant’è che anni addietro realizzo’ una scultura astratta multicolorata, ponendola su un albero, come fanno i bambini con le loro casette. Una casa arborica e una pittura fatte di aggiunte, opposizioni, cancellazioni, ripensamenti, successi e insuccessi che, se non ci fosse il pericolo di essere fraintesi, si potrebbe definire debole.

SESTO QUADRO: FINITONONFINITO
Si tratta di un dipingere e formare risultato dell’ispirazione captata nella zona neutra che sta tra il pensare e il fare, perché un’immagine pittorica, spalleggiata a volte dalla sorella scultura, ci mette sempre del suo, riuscendo alla fine ad essere sempre qualcosa in più, o in meno di come l’hai pensata. Ecco perché bisogna pensarla, ma ecco perché occorre farla, ecco perché bisogna poi vederla. Ciò affranca la pittura dalla decorazione che fa della pittura, come la vita, un gesto di autentica creazione. Non si vuol dire che i quadri di Velasco siano esistenzialisti, solo che hanno una vitalità che proviene dalla materia e dal segno stessi, capaci di organizzarsi sulla tela in modo da rendere evidenti, pur nella loro astrazione, informalità ed espressività, la realtà artificiale e naturale. Le città di Velasco, i suoi labirinti finiscono non per essere un ritratto veristico, ma un piano di segni pittorici, in quanto non c’è ombra di dubbio che la sua pittura viene fatta aggiungendo materia, ma sottraendo figuratività, in modo da togliere, insieme al realismo, anche il verismo narrativo.
Quello che si coglie è la relazione tra finito e non finito, un doppio registro pittorico antico quanto il mondo. È un mondo di immagini che nel corso dei secoli, se ci pensiamo, ci ha dato più una pittura simbolica che realista. E forse il desiderio di realismo, da cui siamo circondati, è una nostalgia di pareggio se non di superamento, com’è possibile vedere nelle immagini mediatiche da cui siamo circondati. È a questo senso di normalizzazione che la pittura sembra volersi ribellare, una lotta evidente nelle pitture di Velasco, in cui le figure sembrano affogare o affiorare e di cui il quadro della Torre Velasca e la scultura in bronzo del tavolo-laguna-palude, in cui sembrano sprofondare i cani, sono degli esempi evidenti. La sensazione è quindi di eterno non finito, di un pittore che si è allontanato dal quadro e che potrebbe tornare da un momento all’altro per terminarli, oppure darsi come invito di una serie aperta, una fuga verso la prossima opera.