1990
MARCO DI CAPUA

L’ispirazione di Velasco è cresciuta negli anni sopra una nota di pura, violenta ebbrezza appena mitigata dal desiderio di controllare l’immagine, di chiuderla in qualche modo, di coglierne sinteticamente i lineamenti, di identificarne i confini, un profilo. 
Ogni volta questo impaziente focalizzatore di terre e figure in gestazione continua, estatica, ha di fronte a sé un mondo permanentemente burrascoso, perturbato, sottoposto ad una sorta di predominanza del grande. Scorticato, diresti, come il corpo di Marsia. Perché Velasco sceglie un soggetto e ne è subito sopraffatto, allora, letteralmente, lo attacca come a vedere se cola sangue, se dibattendosi diventa vero, incurabilmente esistente. Quasi che la pittura non voglia mai dire contemplare pacificamente, smettere di vivere, ma agire, vedendo così di più, più cose e particolari e linee di energia di quanto l’occhio solitamente non possa. 
Durante questa estate è rimasto abbagliato dalla drammatica bellezza dei paesaggi siciliani. Ne ha percepito anche in pieno sole la fisicità oscura, invadente. Li ha guardati con attenzione, stremandoli, mentre solennemente e si disfano, e si cauterizzano simili a lucenti ferite della terra. 
Più guardiamo Velasco, ne osserviamo le opere, e più scorgiamo in lui la doppia condizione di realista e di visionario. E’ uno dei pittori meno neutri, meno passivi che io conosca. Non c’è gesto in lui che ogni volta non sia esercitato contro l’opacità, l’inerzia della vita com’è. Attingiamo dai suoi dipinti una tale sensazione di dilatazione, di coraggio trascinante, e pieno di rischi, sempre in bilico tra la riuscita e qualche scacco subito, che ci fa dire che ha carattere, quello che cercheremmo, si trattasse di letteratura, solo in un estensore di versi infiammati, o di invettive.