1987
ROBERTO TASSI

Sembrava che tutto il lavoro precedente fosse una preparazione a questo; e che in quei paesaggi del 1986 fosse già contenuto in potenza il sentimento di ciò che oggi vediamo violentemente nascere sulla tela. Come se la fantasia di Velasco si eccitasse di fronte alla natura non quando essa è immobile, piacevole, lirica e da contemplare, ma quando le forze nascoste che contiene cominciano ad agitarsi e mostrano quella vita che, continuando l’originaria agitazione, apre voragini, cambia il corso dei fiumi, qua distrugge e là genera, fa precipitare massi che diventano entro i boschi in cui si sono adagiati stupendi monumenti di muschio, fa nascere frane e formarsi laghi. Quando la natura sembra muoversi con l’antica misura della sua cosmicità, con l’ineluttabile e indifferente passo del tempo. 
Poiché c’è in queste opere nuove di Velasco il senso di un destino della terra, di un dramma naturale, di fronte al quale le opere degli uomini appaiono indifese, e misere, laterali, secondarie. E’ una situazione artistica che mi ricorda i pittori di catastrofi naturali, soprattutto gli inglesi tra Sette e Ottocento: le battaglie, le eruzioni o le tempeste di Philip James de Loutherbourg, il Diluvio di Fransis Danby, le valanghe, le bufere o gli incendi di Turner, ma più di ogni altro quel pittore apocalittico che fu John Martin, le tre grandi tele del Diluvio, e il precipitare delle montagne in The great days of his Wrath (I grandi giorni della sua ira). Il riferimento non è stringente, neanche riguardo a Turner che vien più facile richiamare, e quasi tutti lo hanno fatto. Velasco ama la materia; la forza, la ridondanza, l’espressività della materia; nel senso più “moderno” possibile; è, come si dice, un pittore di materia; ma la usa, per dipingere il naturale, sia pure il dramma del naturale, in un modo che può richiamare piuttosto quello di Courbet e di Permeke. 
Velasco viene però dopo l’informale, ha alle spalle quella forza inventiva ed eversiva, quella libertà, o liberazione, materica e di immagine. E naturalmente si avverte; se ne avverte come un rombo sordo e profondo. Poteva finir con facilità sulla sponda dell’astrazione, cui l’informale più di maniera ha portato a volte alcuni artisti ad arenarsi. Ma in Velasco agisce, sorgendo dal profondo, dal suo abitare su quella terra, su quel lago tra i monti, e dall’avere quel padre pittore, un sentimento ineludibile della realtà. 
Ho nominato gli artisti inglesi proprio perché ricordano il suo aggancio all’immagine reale di natura. E quasi vorrei parlar qui di nuovo spirito romantico; ma, oltre che di essere frainteso, ho paura di diventare anacronistico. Mi limito a dire che la sua irruenza, il suo senso grandioso dell’immagine, la sua passione, lo spontaneo flusso materico che sembra sgorgare dal suo pennello, il suo coraggio, il suo abbandono, si può ben dire anche il suo amore, son tutte cose che esercitano su di me molto fascino e che se non si vogliono chiamare romantiche, pure non sono tanto dissimili da quelle che agitavano i romantici (non Friedrich però, come ho letto da qualche parte, poiché con Velasco non ha niente a che fare). 
La materia quindi; che è il centro, il cuore, il tramite delle passioni, nella pittura di Velasco. Ma che non dilaga, non si pone fine a se stessa, non è un corrispettivo della materia naturale ma una sua metamorfosi e trasformazione, non valica mai il limite oltre il quale abita la retorica. A dimostrare che qualcosa la ancora al di qua, in questa zona dove resta espressione del reale, sta il disegno, che da lei, sebbene a volte le apparenze sembrino negarlo, non va mai disgiunto. Materia e disegno stanno uniti solo in chi non può staccarsi dall’esistenza, dalla natura, e dalle loro vicende. Al fondo di queste immagini, proprio all’origine, dove la materia nasce e comincia a germinare, è deposta, dall’intelligenza, una trama disegnativa, che stringe, organizza e poi quasi si oblitera entro lo spessore lacerato della materia, ma avendola ormai controllata e indirizzata. I disegni, molto belli, che affiancano, anche in questa occasione, l’opera pittorica è l’altro aspetto che la pittura di Velasco offre, quello dei ritratti, stanno a dimostrare con chiarezza questo fatto, che nella parte del paesaggio resta nascosto e più difficile da capire. 
Le opere riunite in questa mostra si presentano, modestamente, tenendosi ai titoli, come un diario di ciò che avvenne in una terribile estate, entro una valle vicino ai luoghi di Velasco, dove scorre l’Adda, fiume materno, alimentatore, del lago sulle cui sponde egli vive: dopo giorni ininterrotti di pioggia, allagamenti, furie distruttrici delle acque, frane, aprirsi di voragini, monti precipitati, proprio “i grandi giorni della sua ira”. Ma poi diventa, questo diario, un tragico canto, un doloroso partecipare e commemorare; una specie di ricco poema delle gesta che la natura ha, in quella stagione, grandiosamente compiuto. 
Il “paesaggio cancellato” è un’immagine; ma solo apparente. Qui è dipinta quella cancellazione, nel suo farsi; e, non cinicamente ma umanamente, la bellezza di quella cancellazione. Il paesaggio non muore, non si oblitera, si modifica, diventa altro, ferito, sconvolto, in perda a una forza furiosa che lo riplasma, o immobile nella calma funesta e paurosa del suo nuovo aspetto. Come prima del diluvio cortine fitte d’acqua cominciano a scendere, oscurando la terra. Come durante il diluvio fiumi densi di fango sciolgono campi, distruggono abitazioni, sconvolgono e trascinano ogni cosa. Come dopo il diluvio, gli alberi, i monti, e ora le case e un palo del telegrafo, si rispecchiano nelle acqua, tornate tranquille, di un lago che in precedenza non esisteva. Nel quadro più vasto di tutta la mostra, che è anche uno dei più impressionanti dipinti da Velasco, la montagna sta immobile e possente, mostrando un fianco squarciato, come un immenso animale ferito, pachiderma coricato o balena arenata. Questa immagine multipla, che per questo si mette oltre il tempo e trascende il momento e l’ora, contiene una epicità tragica e atavica del naturale, com’è difficile vedere nella pittura dei nostri giorni. Lo stesso dirupo rimasto dall’enorme frana, isolato dal monte e dipinto da solo ad occupare tutta l’immagine, acquista un aspetto di orrido naturale, come era nel XIX secolo e in quei pittori inglesi citati, il senso del”sublime”. […] Descrivo, rimanendo molto al di qua dell’emozione che danno, le opere di Velasco.