2010
FRANCESCO POLI

Velasco affronta in questa occasione, non senza rischi calcolati, temi esistenziali e sociali, di grande peso e estremamente sensibili, con forme plastiche e pittoriche di singolare forza visionaria e con una strategia installativa che innesca una tensione estetica sinergica fra la problematica contemporaneità delle opere e la suggestiva dimensione storica degli spazi architettonici, esterni e interni, che le accolgono. Con le brevi “note di lettura” che seguono si cercherà di commentare e analizzare, in modo non rigoroso ma si spera abbastanza puntuale, gli aspetti più significativi e cruciali di questo impegnativo progetto espositivo.

 

Sbarco

Velasco è sbarcato a Pietrasanta per dar vita con determinata intensità a una “grande” narrazione figurata i cui protagonisti sono da un lato dei cani, nella loro desolata condizione individuale e come componenti di una muta sbandata e senza più punti di riferimento, e dall’altro lato gli uomini, non come singoli ma solo come una proliferante folla indistinta, salvo due enigmatici personaggi anonimi che trasportano un’imbarcazione rovesciata sulla loro spalle, con la testa nascosta all’interno di essa. I due uomini nudi (naufraghi, o altro) si trovano, forse senza saperlo, immobili e vaganti nella sempre affollata piazza rettangolare della cittadina. Sono figure metafisicamente spaesate alla fine o all’inizio di un viaggio. Questa è una delle stazioni del percorso della mostra che si sviluppa in modo ciclico e parallelo in due altri luoghi: all’internodella chiesa di Sant’Agostino, dove sono raccolti i cani randagi arrivati anche loro da un altrove indeterminato; e nella vicina Sala del Capitolo dove, in due monumentali dipinti uno di fronte all’altro, si espande un’epica raffigurazione indistinta dell’umanità come somma incalcolabile di innumerevoli individui. C’è ancora un’altra presenza emblematica nel giardino esterno: è una solitaria scultura dorata di un grande cane. Dunque, uomini e cani i cui destini precari sembrano inestricabilmente incrociati, in uno scenario ad alto potenziale metaforico che coinvolge il pubblico sugli aspetti più problematicie drammatici della condizione umana d’esistenza, dalla perdita d’identità del singolo alle disperate avventure delle migrazioni di massa. Questa è la struttura di evocazione narrativa ben percepibile in sottofondo ma senza condizionanti connotazioni contenutistiche. L’artista non fa descrizioni realistiche, non propone sue interpretazioni o giudizi, non traccia trame definite, non dà risposte, ma si limita (ma non è certo un limite) a creare un’affascinante e straniante messa in scena visiva tesa a stimolare l’immaginazione e la riflessione, e a generare nuove possibili produzioni di senso.

 

Direzioni di scena. Strategia delle installazioni

In un’operazione artistica del genere ci potevano essere, come si è accennato, dei rischi notevol in termini di ridondanza retorica dei contenuti letterari e ideologici, con una pesante prevalenza dei significati sulle libere e imprevedibili potenzialità espressive delle forme scolpite e dipinte.Questo rischio è stato affrontato ed evitato utilizzando con molta attenzione modalità installative che hanno, necessariamente, una connotazione teatrale ma che funzionano perché ridotte all’essenziale (senza cioè aggiungere alcun elemento oltre alle opere, salvo le luci) per quello che riguarda le “direzioni” di scena e la messa a punto delle relazioni site specific con gli spazi. Per “direzione” (un termine registico) si intende la scelta della posizione più adeguata per dare un’indicazione di senso (non un’interpretazione univoca) alle presenze in scena. In particolare, per quanto ci riguarda, si tratta di come e dove sono collocate i lavori in rapporto al contesto ambientale, e cioè di questioni di installazione che hanno a che fare con l’enfatizzazione ottimale della specifica tensione estetica spaziale. Questa mostra è il progetto più avanzato elaborato dall’artista in direzione di un superamento dei limiti classici della pittura e della scultura (la superficie bidimensionale della tela eil corpo plastico tridimensionale a se stante), senza però smentire per nulla la loro autonoma e consolidata identità linguistica. Qui è entrata in gioco l’esigenza di concentrarsi non solo sul problema delle relazioni formali e espressive interne all’artefatto, ma anche su quella altrettanto importante delle relazioni con lo spazio esterno, per determinare delle condizioni di più complessa e efficace potenzialità di significazione all’incrocio fra dimensione virtuale e dimensione reale.

 

Scultura che cammina. Scultura obliqua

Per la grande scultura in piazza, Velasco ha fatto il contrario di molti artisti che lo hanno preceduto (che troppo spesso hanno cercato di sfidare questo bellissimo spazio con elementi in eccesso e con facili soluzioni spettacolari). Nel suo caso l’opera è solitaria, con i personaggi (di proporzioni naturali) che poggiano i piedi per terra. Non svetta verticalmentema con la sua oblunga conformazione orizzontale sembra attraversare per caso quel luogo, in mezzo alla gente. È immobile, anche se gli uomini appaiono in marcia, ma è soprattutto la posizione obliqua che suggerisce, appunto, una direzione di senso, che evoca l’idea di viaggio verso una destinazione, o meglio un destino, non prevedibile. E questa collocazione precaria e obliqua (insieme alla mancanza di piedestallo) è un elemento spaziale esteticamente cruciale perché fa da contrappunto spiazzante con la regolarità ortogonale della piazza liberando l’opera da ogni possibile connotazione monumentale (e retorica). Un altro efficace contrappunto è quello che riguarda la diversità dei materiali utilizzati perla scultura. Le figure sono realizzate, secondo la migliore tradizione della statuaria, in bronzo patinato nero, mentre la lunga canoa rovesciata è in alluminio, un moderno materiale industriale,la cui superficie lucida riflette la realtà esterna che la circonda, quella che i portatori non possono vedere avendo la testa dentro l’incavo buio.

 

Vita da cani

È da circa dieci anni che Velasco ha scelto come tema privilegiato della sua scultura i cani modellandoli e assemblandoli con i più vari materiali. Punto di riferimento iniziale e fondamentale della sua proliferante e sempre più articolata produzione di figure canine è senza dubbio lo straordinario, sgangherato e scheletrico cane randagio di Alberto Giacometti (un bronzo del1951), icona della condizione di disperata solitudine esistenziale, fratello spirituale dei relitti umani di Beckett, autoritratto tragicamente ironico dello stesso artista. Questo cane, che qualcuno ha definito con qualche ragione come il più importante della storia dell’arte, ha un fascino profondo, inquietante e assoluto ed è sintesi perfetta dell’opera di Giacometti che, come ha scritto Jean Genet “comunica la conoscenza della solitudine di ogni essere e di ogni cosa,e che questa solitudine è la nostra gloria più sicura” (in Dans l’atelier d’Alberto Giacometti). Nella visione del mondo di Velasco, sono ben presenti interrogativi sull’identità individuale e collettiva dell’uomo, sul senso dell’esistenza e sul destino della società. Velasco rimane un umanista esistenziale (anche se non è un esistenzialista estremo) e questa sua visione emerge,in un modo o in un altro, in tutta la sua ricerca. Anche la materia delle sue opere ha una particolare espressività impregnata di vissuto.E questo vale soprattutto nel caso delle sculture dei cani realizzate con pezzi di lamiera(con le saldature in evidenza), con scheletri metallici (o reti metalliche) ricoperti da bianco gesso grumoso (o bende gessate) o da nere tracce di catrame, o da altri materiali e colori. E magari anche in bronzo ma con patine martoriate. Gli animali sono rappresentati quasi sempre con misure al naturale e in modo sinteticamente realistico ma con molta libertà e accentuando la tensione delle posture con studiate deformazioni, a volte al limite del patetico e dello stralunato. Ogni cane sembra avere una sua anima individuale, appare sempre “solo come un cane” e trasmette, quale che sia la sua posizione, uno straniante senso di solitudine plastica. E questa solitudine plastica rimane sempre evidente anche quando, come nel caso dell’installazione nella chiesa di Sant’Agostino, l’artista ne mette insieme tanti da formare un branco. E qui vediamo cani accovacciati, in piedi, sdraiati, che si voltano da un lato o guardano in basso o in alto, che camminano sbilenchi, con le zampe piegate e le code allungate o ripiegate. Non si vedono però mai cani che corrono o in atteggiamento aggressivo: sono esseri che appaiono rassegnati e (come già detto) sbandati e senza punti di riferimento. Ma la cosa molto interessante è che, pur rimanendo intatta la solitudine plastica individuale, qui quasi per incanto ogni scultura entra anche in stretta relazione con le altre dando vita a un’ampia e articolata opera unica, all’opera-branco. Questo risultato di notevole fascino deriva dall’intensità dell’effetto spaesante della presenza di un’installazione del genere (caratterizzata da dinamiche formali erratiche e disgregate) all’interno del sacro ambiente, austero e ordinato, di una chiesa. Il tutto acquista una tensione plastica e spaziale particolarmente accentuata grazie a un raffinato gioco di luci e di ombre. Bisogna anche ricordare che a ognuno dei cani l’artista ha attribuito il nome di una città scomparsa, nomi anche strani ed esotici come per esempio Varosha, Pripjat, Mohenjo-daro,Bannack, Suakin.

 

Cani sul piedestallo

Ci sono in mostra due cani su piedestalli molto diversi fra loro e collocati in luoghi differenti. Il primo si trova ancora nella chiesa ma da solo dietro all’altare, nell’abside. È un cane catramoso sempre della genia dei diseredati, che è collocato su una pila di secchi metallici, accasciato con le zampe e la testa che pendono in giù. Su un vero piedestallo rettangolare in marmo bianco, nel giardino esterno, si trova invecela statua esplicitamente monumentale di un cane seduto. La scultura molto più grande delvero è dorata, e per certi versi richiama alla memoria antiche divinità canine come quelle egiziane. Nella sua orgogliosa e ieratica solitudine pare meditare melanconicamente (se un cane è in grado di farlo) sulla perdita irrimediabile del suo potere di guida. Un capobranco senza più seguaci. Non si sa quale dei due cani sia più patetico.

Folla, massa, sciame di gente

Ecco infine (ma potrebbe essere all’inizio) la pittura che si espande con grandiosa simmetria in due grandissimi teleri appesi uno di fronte all’altro nella grande e spoglia Sala del Capitolo. Le due tele sembrano in un certo senso svolgere la funzione di quinte di una scena teatrale, il cui palcoscenico non è altro che l’ampia area del pavimento che si trova in mezzo. Ma si tratta di un teatro del vuoto e del silenzio, dove protagoniste virtuali sono solo le grandi scene dipinte che raffigurano in positivo e in negativo (con toni chiari e toni scuri) delle folle brulicanti che occupano tutta la superficie con un’ossessiva proliferazione di anonimi e indistinti individui. Queste pitture all over, che a prima vista da lontano sembrano immense composizioni informali, sono realizzate con grande maestria e con un’energia espressiva allo stesso tempo intensa e fluttuante. In queste opere, che affrontano temi nuovi, Velasco riesce a trovare un esemplare punto di fusione alta tra figurazione e astrazione, fra una tematica impegnata (che riguarda in particolare le grandi tragedie di massa dei profughi o dei clandestini, ma in generale i destini dell’umanità) e un’inedita libertà di elaborazioni specificamente pittoriche cariche di grande vitalità. Una pittura che non ha paura di mettersi in gioco in una dimensione con valenze anche epiche, riuscendo a navigare sulle onde spesso ardue della ricerca della vera qualità.

 

in Sbarco, Skira 2010, Milano, Palazzo Reale e Piazza Duca D'Aosta, catalogo della mostra