2009
DANILO ECCHER

“Mai come oggi - dice Velasco Vitali – è possibile comprendere come la pittura sia un atteggiamento mentale”, mai come oggi, si potrebbe proseguire, i pittori hanno consapevolezza della loro fragilità linguistica, della precarietà di un processo letterario che ha scoperto l’inconsistenza del proprio alfabeto. In effetti, la pratica pittorica ha assunto nella contemporaneità un ruolo obliquo, marginale, un’ambigua titubanza fra l’insistenza ortografica della maniacalità linguistica e l’abbandono puerile alla compiacenza colta della memoria. Un atteggiamento che ha sospinto molti artisti alla rinuncia dell’attualità, all’incomprensione delle sue voci, al rifiuto di una realtà spesso indecifrabile. La pittura ha così, spesso, sofferto di un diffuso analfabetismo e di una buia cecità, ha abbandonato il confronto con i nuovi linguaggi ed è sempre più apparsa come una pratica appesantita, retorica, goffamente saccente di fronte a una contemporaneità frenetica e impulsiva. Eppure, in un panorama così complesso e articolato, non sono mancati esempi di esaltante confronto fra il pulsare veloce della realtà e l’emozione del sospiro pittorico; è il caso di Jackson Pollock sul finire degli anni Quaranta, di Mark Rothko e Yves Klein ma, forse ancor più violento, quello di Francis Bacon con l’affondo nelle spirali dell’esistenzialismo che, proprio negli anni Sessanta, costituiva i presupposti per le rivolte performative di Fluxus e dell’Actionismus Viennese. Una pittura che frequentava la perversa malattia dell’individuo, ne afferrava il gesto distruttivo, le mostruose deformazioni, le ferite autolesionistiche, i piaceri e i vizi corrosivi. 
Eppure, ecco l’affondo in una materia antica, l’azzardo di un cromatismo sofferto che accende nuovi bagliori di narrazione e libera la fantasia del racconto. È accaduto con l’eroismo di Georg Baselitz e Anselm Kiefer o con l’ingenuità della Transavanguardia; è ciò che accade, più recentemente, nell’erotismo pittorico di Cecily Brown e Jenny Saville, nell’incanto fabulatorio di Francis Alÿs, nelle garbate contaminazioni di William Kentridge e Avish Khebrehzadeh. La pittura reagisce all’assalto della contemporaneità, scavando nel proprio corpo alla ricerca della propria anima, rinunciando alla semplicità del racconto per accedere alla complessità della poesia, scoprendo la propria maschera mimetica e liberando la vastità del proprio pensiero. 
“Mai come oggi – dice Velasco Vitali – è possibile comprendere come la pittura sia un atteggiamento mentale” e mai come oggi è possibile riconoscere quegli artisti che sanno sfuggire alla morsa soffocante dell’illusione linguistica, che sanno rinunciare all’abbacinante sorpresa del trucco formale, che sanno resistere alla tentazione del consenso superficiale. Velasco Vitali è uno di questi artisti, un pittore che riconosce nuovi itinerari senza rinunciare al proprio bagaglio culturale, che accetta la sfida della contaminazione linguistica senza tradire le proprie suggestioni letterarie, che affonda in una quotidianità viscida senza perdere di vista il proprio orizzonte poetico. Ecco allora una pittura che si svela complessa: accarezza le suggestioni narrative ma, al contempo, sa tracciare un rigoroso percorso intellettuale, una pittura che può rinunciare alla figura, alla sua immagine rassicurante, alla sua familiarità ma non abbandona il piacere della narrazione, non si separa dalla pratica del racconto. È però un racconto che si fa più ‘mentale’, rarefatto, etereo, rinuncia all’ingombrante presenza dell’immagine per affidarsi alla più incerta solitudine: “le mie figure – dice Velasco Vitali – sono spesso un miscuglio di verità e di visione, visioni che ripercorrono ossessivamente la realtà […] così il quadro assurge a ruolo realmente futile e ne sbeffeggia i significati”. Le città che affiorano da questo denso magma pittorico non sono quindi i ritratti di una realtà ripercorribile e riconoscibile, sono apparenze e somiglianze, visioni ingannevoli di una verità che tale non è. Luoghi illusoriamente noti, simboli familiari di una realtà svaporata i cui contorni trattengono un flebile ricordo ormai disperatamente aggrappato alla memoria. Quartieri residenziali che sfumano in caotiche favelas, deprimenti ingorghi abitativi che rigettano improbabili architetture, geometrie vitali spente in un tonalismo grigio e nebbioso. Anche quando l’immagine si rende più nitida, quando la sagoma di un edificio appare più riconoscibile, quando il profilo della ‘Torre Velasca’ o del disegno preciso di Gio Ponti affiora dall’indistinto panorama, anche allora la figura si spoglia dal proprio mimetismo per assumere un carattere simbolico, per azzerare lo scorrere narrativo nella sospensione del dubbio e dell’insicurezza. “La pittura – scrive ancora Velasco Vitali - potrebbe affermarsi come l’arte che racconta il dubbio, lo squilibrio o il coraggio di ricostruire sopra qualcosa di profondamente sbagliato, cancellare gli errori con un gesto semplice e primitivo, con il colore, umile e potente assieme”. È infatti la materia pittorica, il corpo dell’opera, ad assumere nella poetica di Velasco Vitali un ruolo protagonista, una materia che, come una rugosa corteccia, ha mantenuto la ruvida fisicità di un prodotto denso, magmatico, invadente; allo stesso modo, l’impasto cromatico, pur avvolto nella segnata pelle della pittura, ha conservato lucentezze e bagliori, tonalità e contrasti di una tavolozza colta e ben distribuita. Un contrasto rude, a tratti crudele, fra materia e colore, fra corpo e sguardo; un confronto che scuote l’anima della pittura, che scompone la grammatica costitutiva del suo essere per conservare la curiosità del dubbio, l’innocenza della sorpresa, la rarefatta eleganza del pensiero. “La pittura è un atteggiamento mentale” significa quindi per Velasco Vitali la consapevolezza di una deriva concettuale, non l’abbandono labirintico alle contorsioni del pensiero, bensì la serena determinazione a restituire all’arte un profilo più alto, più distaccato, più etico. Così Milano è il pretesto amico per riflettere sulla Città, sul significato di comunità e collettività, sui drammi e sulle gioie che si accavallano e si rincorrono lungo le strade e nei cortili, nelle piazze o lungo i viali, nella metropolitana o sulle terrazze di chiese e palazzi. Una Città che vive, respira, si nutre, si diverte, piange; una Città in cui s’incrociano esistenze, s’accendono ambizioni, si spezzano sogni, si ama e si odia, si nasce e si uccide; una Città di randagi che si appartano con i loro destini, di altri uomini che si spengono nel silenzio di un’angoscia quotidiana, di giovani che rincorrono le luci di un successo effimero e comunque altrui; una Città vista dall’alto, spiata nei sotterranei, attraversata con lo sguardo assente di chi sente le mille voci della solitudine. Milano è la metafora della Città, un territorio pulsante, un ambiente vivo, dinamico, uno spazio indecifrabile, liquido, incredibilmente fitto e affollato eppure così vuoto e solitario. 
Proprio attraverso il dato narrativo dell’ambiente, la complessa letterarietà del soggetto ‘paesaggistico’, irrompe nella poetica artistica di Velasco Vitali l’elemento spaziale, il suo scarto tridimensionale, un inatteso fattore che costituisce una straordinaria dinamica compositiva e, al contempo, ridefinisce l’intero piano interpretativo di questo linguaggio. È proprio nell’ambito installativo e scultoreo che l’indagine spaziale mostra tutto il suo peso concettuale e la sua robusta articolazione formale, emerge così una sorprendente energia compositiva che aggredisce la figura scultorea, scarnificandone il corpo, piegandola e deformandola alle proprie esigenze. Si coglie allora il passo installativo che guida e ordina l’agire scultoreo; un passo consapevole, misurato, colto, che modella l’ambiente fino a renderlo soggetto dell’opera. Non più semplice luogo ospitante, non più palcoscenico per una recitazione altrui, lo spazio riveste un sempre più consapevole ruolo recitante, accompagnando le singole parti dell’opera, i frammenti scultorei, alla loro avventura espressiva. L’aspetto plastico si deve dunque ridefinire lungo le direttrici di una consapevolezza ambientale dove la singola scultura si ordina e si acquieta in una composizione più ampia, in una narrazione più articolata, in una collettività di figure e di forme. Emerge quindi l’esigenza di sbilanciare lo sguardo dal dato formale a quello compositivo, dall’elemento scultoreo a quello installativo, dall’immagine allo spazio. Ciò avviene attraverso un duplice processo formale che, da un lato tende ad attenuare l’impatto emozionale e suggestivo della figura, dall’altro lato, ad accentuarne la modularità ripetitiva. Anzi, proprio l’elemento modulare, simile in questo allo schematismo di Donald Judd o alla ripetitività di Andy Warhol, svolge la funzione di attenuazione dell’impatto ‘sentimentale’ dell’opera, per accentuare il peso compositivo dell’insieme nello spazio. Così, lo sguardo può scivolare dalla singola figura scultorea per adagiarsi sulla spazialità 
dell’installazione, può trascurare il dettaglio formale per accedere alla complessità spaziale, la ripetizione modulare del dato formale e compositivo consente di scardinare sia la singolarità dell’immagine sia la rigidità architettonica. Nella frammentazione modulare, l’organizzazione installativa consente di riformulare lo spazio componendolo e ricostruendolo fuori dal rigore geometrico dell’architettura e lontano dalla spettacolarità emozionale della narrazione. L’arte di Velasco Vitali rappresenta una delicata alchimia di mille quesiti, è l’approdo del dubbio, la curiosità della ricerca, l’emozione della sorpresa, è un’arte che non propone risposte, che non dispensa consolazioni, che non concede riposo. Non vi è pausa in questo percorso, vi è l’inquietudine di un’oscillazione costante fra estremi opposti, fra incertezze distanti, un vagare poetico nelle spigolosità della ricerca, fra l’incanto emozionale e il rigore intellettuale, fra l’apparizione sublime e il contagio della materia. Forse ha ragione Velasco: “non della realtà abbiamo bisogno ma di una via di fuga”.