2015
MARK GISBOURNE

Nel pensare allegramente a questa canzone di Cole Porter e alle brillanti parole del suo testo, che parlano di reclusione, possiamo immaginare che l’arte di Velasco Vitali sia un’indagine intorno allo spazio e alla libertà, che trovano espressione nel libero fluire dell’autonomia personale.
Probabilmente, tale associazione d’idee è dovuta al fatto che alcuni dei temi ai quali s’è dedicata assiduamente la sua produzione artistica degli ultimi vent’anni sono tutt’altro che ovvie tematiche pittoriche e scultoree di città, paesaggi urbani, edifici fuori le mura e cani randagi. Per analogia con ciò ch’è umano, il ‘randagio’ di città – qualora lo si lasci agire – è per eccellenza l’ultimo dei flâneurs, libero d’andare a zonzo e d’annusare gli odori del suo mondo finché non viene catturato.
Mi rendo conto che avviare un saggio sull’ampia e variegata opera di Velasco Vitali attraverso questa visione può essere in parte fuorviante, ma d’altronde ci fa ricordare che non è soltanto la popolazione umana a controllare, abitare e ad adattarsi all’ambiente del moderno spazio urbano. Essa ricorda all’osservatore attento che le dinamiche forze della natura – qualora si dia loro una possibilità – si riappropriano facilmente degli spazi urbani, attestandosi nelle labirintiche fessure e negli angoli oscuri di una comune pólis.
Nell’allestimento della mostra di Vitali sono inclusi molti di questi riferimenti all’urbano- nel-paesaggio. Si tratta d’un percorso – attraverso l’ampio spazio della galleria – intenzionalmente pensato dall’artista come un labirinto immaginato e riproiettato, che pone al visitatore una serie di domande e considerazioni emotive di varia natura. Il filo d’Arianna è rappresentato dai quadri, dalle sculture e dai disegni che lo spettatore incontra lungo il tragitto.

Detto questo, la letteratura sul labirinto come metafora psichica è decisamente ricca e da spettatori ci siamo subito ricordati di queste parole di Jorge Luis Borges: ‘Non c’è alcun bisogno di costruire un labirinto, dato che l’intero universo è un labirinto’. Di conseguenza, all’interno della mostra, il dedalo – o labirinto – si pone non solo come materia fisica e filosofica, ma anche come referente psicologico dello sviluppo di un’identità estetica personale. Accantonando per un attimo queste più alte considerazioni d’ordine filosofico e psicologico, osserviamo che in un certo modo gli impulsi estetici di Velasco Vitali hanno sempre a che fare con i percorsi urbani, le (dissotterrate) origini arcaiche e il ruolo pittorico (rivelatore) che diverse città e póleis hanno avuto all’interno dell’evoluzione della sua cultura, ovviamente anzitutto italiana e poi internazionale. Questa è la ragione per cui appena si entra nella mostra attraverso uno stretto varco, la prima immagine che si vede è un piccolo disegno, una veduta di Venezia con prospettiva a volo d’uccello, intitolata Velasco-Jacopo de’ Barbari, Veduta di Venezia. Vitali ha realizzato una copia da una xilografia di Jacopo de’ Barbari, pittore e illustre incisore veneziano del Rinascimento. Qui, Venezia si pone come la città per antonomasia, sul piano storico e universale, dato che ‘analogamente ad altre città’ esiste sia come viva presenza sia come palinsesto, come luogo complesso in cui s’intrecciano eventi attuali e tracce del passato. Il potere emotivo delle città odierne (a parte le abbandonate ‘città fantasma’) è dovuto al loro essere costantemente riscritte, ai loro aspetti transitori, prima affermati e poi alterati e sovrascritti. Nelle città sono contemporaneamente presenti realtà diverse: ai confini architettonici si aggiunge l’abitudine a un dissimulato senso di anonimato tollerante o indifferente.
Spesso le città storiche, in quanto distinte dalla città moderne, sono luoghi labirintici, caratterizzati da una tensione atmosferica: luoghi in cui ci si trova immersi in una fusione tra l’ordine apollineo e l’opposta corrente dionisiaca di sotterranea ebbrezza. Vi si percepisce un’ambivalenza: il tratto sensoriale che le caratterizza, e che l’arte di Vitali esprime in questa mostra, è un senso di claustrofobia spaziale che convive con l’anelito a una libertà emotiva. Ogni stanza della mostra è uno spazio che accoglie differenti palcoscenici ‘affettivi’, esempi visivi di momenti di transizione della consapevolezza pittorica dell’artista. Eppure, non diversamente dal mitico labirinto del Minotauro cretese, noi – proprio come Teseo – procediamo verso il centro, o punto critico, solo per renderci conto che dobbiamo far ritorno, viaggiare a ritroso sulla stessa via per la quale siamo venuti. Dobbiamo rintracciare i nostri passi precedenti e visualizzare di nuovo, ma in modo diverso dalla prima volta, quel che abbiamo già visto. Del resto non può sorprenderci la complessità simbolica del labirinto, simile a quella da noi percepita nel volubile regno dei sogni. Passando attraverso sonnolenze ipnagogiche o psicopompici risvegli, entriamo e usciamo dal labirinto del nostro inconscio, una realtà alternativa a quella dello stato di coscienza, e alla presunta realtà del mondo dello stato di veglia.
La prima stanza della mostra introduce le argomentazioni e rende evidente il percorso tematico della ricerca visiva. E immediatamente si comprende che Vitali evoca simultaneamente due aspetti: i processi formali dell’esecuzione si fondono con le allusioni e i voluti riferimenti al soggetto, che diventa di conseguenza il titolo dell’opera o il significato ch’essa esprime. Ad esempio, nei piccoli quadri intitolati Inizio (2015) e Labirinto (2015), il primo dei due rende chiara la distinzione: le pennellate hanno la natura dello schizzo, e la materia applicata è scarsa; invece, nel secondo quadro si ricorre alla tecnica acquerellistica del ‘bagnato su bagnato’: l’esecuzione è più intensa e il colore non è diluito. Le immagini dell’uno e dell’altro quadro sono sospese fra astrazione e figurazione, e i tratti di pennello sono tali da assecondare i riferimenti al labirinto: “Sono un pittore che detesta l’aggettivo ‘figurativo’ ed è convinto che la pittura sia in grado di esprimere sentimenti strettamente legati ai sogni”. Tuttavia, i vividi colori di questi quadri indicano che il labirinto non sta diventando simile a una camera oscura o alla caverna platonica: l’attitudine dell’artista contrasta le probabili supposizioni degli spettatori, i quali si aspettano che un labirinto abbia tutt’altra forma. Un’ulteriore, intenzionale ambiguità viene poi messa in rilievo da altri piccoli quadri presenti nella prima stanza, intitolati Reti (2015) e Parking (2015), che evidenziano l’esecuzione pittorica, ma in questo caso si accentua la relazione dialettica fra cornice e immagine. Il senso delle tele quadrate inserite nelle cornici rettangolari più ampie che le contengono, invita a uno stato di spostamento della mente come se potessimo immaginare i pensieri proiettati in una struttura labirintica. Il contenuto delle immagini sembra sottrarsi a una comprensione immediata e c’impedisce di passare a una maggiore profondità spaziale. In Reti ci sono sbarre rosse verticali e materiche che fanno pensare a una prigione, mentre in Parking c’è una campitura centrale verde, che oscilla tra figurativo e astratto: alberi delineati con imprecisione sopra una schiera d’auto parcheggiate. Arco (2010) è una scultura che rappresenta un cane precariamente accovacciato su uno sgabello che funge da piedistallo; si tratta d’un segugio randagio, non dissimile dalle precedenti figure canine di Vitali. Ma, ancora una volta, raffigurazione e titolo danno l’idea d’una deliberata interazione tra forma e funzione: averlo posto nella prima stanza dell’installazione, suggerisce che si tratti d’un portale, o comunque d’un ingresso, in accordo con la tradizionale interpretazione
di questo elemento architettonico. E il grosso fil di ferro usato per la sua esecuzione, che evoca uno scorticamento, o un sistema vascolare, mette in relazione questa scultura con un’altra opera, Arterie, grande disegno a inchiostro che raffigura un paesaggio urbano. Mentre l’analogia tra corpo e città è ovvia, lungo la superficie di Arterie si dipana lo stesso, grosso, fil di ferro, sovrapposto e variamente configurato. Scherzando un po’, si potrebbe dire che questi agglomerati di fil di ferro ricordino il modo in cui vengono trafilati gli spaghetti, oltre a far pensare al confine, spesso allusivo, fra dipinto e scultura (in questo caso, un rilievo ottenuto per accumulazione) che ricorre in gran parte dell’opera di Vitali. Tale allusività caratterizza, tra l’altro, Controparti e il paesaggio intitolato Controluci (2015): in entrambi i quadri ci sono impliciti riferimenti a quelle vedute aeree di paesaggi urbani per le quali l’artista è ben noto. Tuttavia, mentre nel primo dei due quadri la materia è piatta e opaca, di un tenue color biscotto tagliato da pennellate di bianco, in Controluci il colore e la natura delle pennellate producono una trama densa e stratificata.
Al termine della prima stanza, c’è un piccolo ma intenso quadro verticale, intitolato Smoke (2015); può trattarsi d’un altro deliberato e arguto “tropo”, o dell’ipotesi d’un offuscamento contestuale. Non è un caso che, per denotare genericamente questi effetti opachi in pittura, normalmente si usi un termine della lingua italiana ‘sfumato’ (derivante dal verbo ‘sfumare’) –, che significa ‘smorzare’ o, letteralmente, ‘dissolversi come fumo’. La prima stanza della mostra traccia la direzione, e uno stretto passaggio conduce alla seconda. Appena entrati, ci si trova davanti al metallo luminoso e lucido della tavolo-scultura intitolata Acqua. Affioranti dall’acqua, e apparentemente adagiati sulla sua superficie, forse memori di qualche evento postdiluviano, sono molti i cani sperduti nelle loro varie posture. L’abilità con cui Vitali coglie il diverso ed espressivo disporsi di questi animali, e il loro linguaggio del corpo, è davvero notevole. I cani stanno seduti o sono languidamente sdraiati e assopiti, ed ogni piccolo randagio viene osservato da vicino con una posa tutta sua, che ne denota il carattere. Il fatto che tutto ciò venga presentato su un tavolo orizzontale, e non con un bassorilievo, non fa che accentuarne e renderne immediata la presenza, dando importanza al punto di vista dello spettatore che guarda dall’alto la superficie luminosa. Eppure, sappiamo che nella mente di Velasco Vitali questa muta di cani racconta lo strano mescolarsi di ansietà e benevola presenza, da quando ricorda di aver visto un branco di cani randagi vagare nella zona della Sicilia vicino al suo studio e alla sua casa. Spesso i cani hanno il ruolo delle sentinelle, ma possono trasformarsi rapidamente in guardiani aggressivi, ed – essendo posti entro un labirinto – forse ricordano allo spettatore un preconscio mondo sotterraneo, quegli inferi a guardia dei quali notoriamente c’era Cerbero, il cane a tre teste. Detto ciò, i cani possono anche farsi emblemi di fedeltà e accompagnare i tormenti e i dolori degli uomini. Mi viene in mente un incantevole soggetto mitologico di Piero di Cosimo, Morte di Procri, un satiro piangente sopra una Ninfa (1495 circa). In quest’opera ben nota del famoso, e in certo modo eccentrico, artista rinascimentale italiano - conservata alla National Gallery di Londra – Piero dipinge alcuni cani nei pressi di uno specchio d’acqua, mentre uno di loro, seduto, devotamente assiste alla scena culminante del racconto mitico di Ovidio.
Nella seconda stanza sono presenti anche otto piccoli disegni in rilievo (Tensioni, 2015), che ribadiscono il già citato senso d’ansietà pittorica, suggerito dall’artista anche nelle opere precedenti. Questi variati paesaggi urbani e scenari naturali sono prolungati in grovigli di fil di ferro saldato e posizionati sopra le immagini, disegnate a inchiostro, a matita, a biro o ad acquerello. In un certo senso, tali strutture danno forma a una dialettica compositiva, ossia rafforzano e/o contrastano la raffigurazione iniziale dei vari disegni. La rafforzano, in quanto ribadiscono la tridimensionalità visivamente implicita nei disegni bidimensionali, e insieme enfatizzano forme e figure riguardanti le vedute del paesaggio urbano disegnate dall’artista.
Questo è particolarmente evidente nel colore delle configurazioni complementari in fil di ferro di Tensioni 1-3-4-6. Eppure, nell’‘informale’ rapporto tra paesaggi e vedute urbane, gli elementi dotati di rilievo scultoreo spesso contrastano la poetica informale e rappresentano una sfida, o un contrappunto, al loro contenuto. Ad esempio, nell’astratto-figurativo Tensioni 2, c’è un’interazione particolarmente assertiva tra linea, geometria e mascheramento.
In Tensioni 5, la struttura saldata ha una tensione espressiva opposta, che sfida l’oscura, minacciosa foresta dipinta dietro. Nell’acquerello Tensioni 8, un cane da caccia non fa altro che stiracchiarsi, mentre la struttura di fil di ferro sovrapposta a forma di box replica le tensioni contenute nel semplice atto dello stretching dell’animale. Come suggerisce il titolo, queste Tensioni agiscono quali provvisori precursori pittorici di temi più ampi, che verranno sviluppati ulteriormente nelle stanze seguenti. M3 (Velasca), quadro dall’esteso grigio e dalla fitta trama che integra il tavolo-scultura condividendone la forma rettangolare, è posto al centro della stanza, proprio di fronte a lei. Anch’esso sfrutta la geometria imprecisa e abbozzata della griglia di superficie – striature verticali e orizzontali stese sul supporto bagnato, forse con un chiodo o con l’estremità del manico del pennello che scaltramente stabilisce un rapporto con i suggerimenti modernisti della griglia e forse allude al tradizionale e ben noto uso pittorico del velo. Il quadro fa esplicito riferimento alla Torre Velasca, un edificio degli anni Cinquanta a forma di torre, situato nel centro di Milano, non lontano dal Duomo. Venne concepito in linea con l’architettura delle fortezze lombarde medievali, riferimento reso evidente dalla parte superiore a sbalzo. Per Velasco Vitali essa rappresenta – come ha scherzosamente osservato nel corso d’una conversazione con me ‘il mio lato femminile’. Ma è ancor più significativo che la Torre porti avanti l’interesse che questo artista ha sviluppato – con le sue invenzioni pittoriche – per lo spazio urbano. “A volte ho sentito il bisogno di arrivare al punto in cui l’immagine della città potesse diventare per me qualcosa di più: volevo esser capace d’inventarla.” Questa affermazione esprime le idee di Vitali riguardo a quella che lui definisce la sua visione personale delle città: “La decostruzione di talune di queste visioni è riuscita a tal punto da dar luogo a qualcosa che sembra frutto d’invenzione. Mi piace assai che la realtà giunga per conto suo alla soglia dei sogni”. Quindi, nella sua pittura il tema del paesaggio urbano riguarda sempre più la fusione di realtà e visione personale di essa, una soglia della realtà che viene immaginosamente ridistillata nella mente consapevole. Nella terza e quarta stanza, si passa a un altro aspetto del pensiero dell’artista, e l’installazione si concentra su quadri intensamente espressivi e su varie forme vegetali. Nella terza stanza, l’enfasi rivela ancora una volta una netta tendenza a esaminare le questioni relative all’esecuzione pittorica nonché le relazioni associative – e talvolta ambigue – fra concetti. Nel quadro di medie dimensioni, Asparagus (2015), composto da due tele unite, l’accento si pone sulla superficie astratta, dove è accentuata la densità della materia pittorica. Si ha una sensazione visiva d’umidità nella quale scorgiamo figure di giocattoli che come surfisti scivolano sulla superficie d’un muro dipinto. Eppure, in modo diverso e forse persino accidentale, la superficie di questo quadro contiene strani echi visivi della superficie d’acqua del bassorilievo con i cani (Acqua) visto nella stanza precedente. Allo stesso tempo, le tonalità cromatiche ribadiscono il generale senso liquido del quadro, che tra l’altro sembra contraddire il titolo scelto dall’artista, tranne forse per quanto riguarda l’affinità materica e l’uso del colore. Ma questo quadro – come in Skate-the-Pink (2015), in cui appare un surfista, o forse degli skateboarders – si muove sul confine, tutt’altro che rigido, tra pittura e disegno, se non altro riguardo alle scie degli skate, simili a ruscelli, che scorrono lungo la superficie d’entrambi i quadri. È lo stesso effetto di immaginazione che fa pensare a dita che scorrono lungo la superficie del quadro e, mentre evocano la linearità gestuale del disegno, ne segnano il tratto esecutivo. In verità, l’effetto complessivo di queste sinuose linee polisemiche mi ricorda quello dei quadri del primo Brice Marden, che giocano a loro volta sull’interazione tra disegno e superficie pittorica.24 Tuttavia, nelle superfici di Vitali c’è una consistenza materica e una sostanza tangibile che lo distinguono in modo netto dalle immagini secche e piatte del maestro americano. In entrambi i quadri c’è la proposta e l’adozione, da parte di Vitali, di punti di vista ambigui, che suggeriscono una prospettiva a volo d’uccello o una mappatura ottica. Quest’ultimo aspetto è evidente in quello che potremmo considerare un piccolo quadro astratto, Greenday (2015), nel quale le figure di surfers-skaters sono viste dall’alto. La densità dei pigmenti riprende quella materica di cui si parlava, ma in aggiunta a questo contribuisce all’aspetto in qualche modo fluviale di molti di questi quadri. Greenday riecheggerà in alcuni quadri presenti nella stanza seguente, ad esempio in Fluxus (2015). In effetti, più evidenti aspetti fluviali (e forse magmatici) sono sottintesi in Volcano (2015), quadro che pittoricamente allude a una struttura labirintica ambientata nel grigio cinereo d’un paesaggio presumibilmente posteruttivo. In ogni caso, le opere di maggiori dimensioni presenti in questa stanza modellano lo spazio con una diversa intonazione emotiva. Per esempio, il grande Pic Nic (2015), alto due metri, rappresenta lo sviluppo del piccolo quadro intitolato Parking; vi si ritrovano il filare d’alberi e lo schizzo rosso che raffigura le auto parcheggiate in primo piano, alla base del quadro.  In Bosco (2015), vitreo disegno a penna e inchiostro, ritroviamo i nostri amici canini, inseriti in un fitto e apparentemente impenetrabile paesaggio boschivo. La composta e rigorosamente compressa densità dell’immagine, e le forme ad essa sovrapposte, costituiscono una deliberata negazione della profondità; in qualche modo, richiamano le arbitrarie variazioni di scala, con figure sovrapposte e disposte verticalmente, come si possono trovare nelle composizioni pittoriche e nei manoscritti del Medioevo e del primo Rinascimento italiano. Il labirinto, o dedalo, e il tema dell’intrappolamento, ritornano in Trappola (2015), quadro in cui una luminosa e paradossalmente traslucida pittura rappresenta anche qualcosa di simile a un filare d’alberi ricoperto da un delicato reticolo pittorico. La trappola raffigurata non è diversa dalle reti da uccellagione comunemente usate in Lombardia, qualcosa che senza dubbio appartiene al paesaggio in cui è cresciuto l’artista Vitali. Nella quarta stanza, l’uso del colore è accentuato ed esteso, dando luogo ‘più che a un labirinto’ a un personale hortus conclusus, con quadri di medio o grande formato: My Garden (2015) e Home (2015). Il primo dei due, che sfiora l’astrazione, potrebbe esser definito in un certo modo un paesaggio labirintico, dato che un gatto abbozzato, o un leone, nella parte sinistra del quadro, e le figure nere, allusive e pseudo spettrali, sembrano immergersi in un paesaggio immaginario e denso. Home è una vivace e affettuosa celebrazione, il cui assai espressivo motivo centrale è una macchia ingiallita d’alberi, o d’arbusti. In termini compositivi, qui c’è ‘sia pure in scala maggiore’ qualcosa di quell’introduzione d’un tema attraverso un’immagine, che abbiamo già visto nei quadri più piccoli presentinella prima stanza, come Reti e Parking (in questo caso, l’immagine ha le dimensioni della tela). Un riferimento incrociato, sottolineato dal disegno a penna e inchiostro, con un rilievo di fil di ferro, intitolato Cani blu (2014), disegno che riprende analoghi motivi di paesaggio urbano e l’ormai nota iconografia canina.  Entrando nell’ultima stanza, il visitatore si accorge degli aspetti contrappuntistici o recitativi alla cui evoluzione si è assistito nel visitare la mostra. Velasco Vitali ha lucidamente enunciato il modo in cui va intesa la sua attività artistica: “ogni oggetto è pensato allo scopo di suscitare sorpresa, contraddizioni, domande, un avvicinamento all’opera e, in realtà, a una dimensione onirica. Anche per me sta diventando un qualcosa di circolare, che mi costringe a fare i conti con le mie radici e che al tempo stesso mi mette in pace con i miei sogni offrendomi uno spazio di conquista per i prossimi. ”L’indizio offerto da questo enunciato diventa del tutto evidente solo nell’ultima stanza dell’installazione, non appena ci si trova di fronte al labirinto del grande quadro intitolato In the Beginning (2015), che – per colore, forma e composizione – intuitivamente rimanda a due quadri visti nella prima stanza: Inizio e Labirinto.

Il viaggio interpretativo fin qui condotto insieme al visitatore e all’artista, si fa chiaro in Noi due (2014), una veduta urbana che ricorda la serie di quadri intitolata M9 (2008), la quale suggerisce che l’edificio raffigurato sia molto probabilmente un altro dettaglio tratto dalla città di Milano. L’obiezione più comune al desiderio dell’artista di voler imprimere una circolarità tematica e formale, è di dar così luogo a una forma di teatralità; e quindi l’asserzione “La messa in scena delle mie opere è molto importante, è cercata e voluta” non deve essere fraintesa. La ricorrente metafora del sogno è l’indizio che, nella circolarità quotidiana di veglia e sonno, il tragitto onirico non è mai proprio lo stesso, così come il contenuto dei sogni non si ripete mai uguale all’ultima volta. Può anche darsi sia questo il motivo per cui il ‘tondo’ con testa femminile, visibile nella quarta stanza e intitolato Butterfliesflowers, conclude l’installazione. È un’Atropo contemporanea, le cui cesoie sono pronte a recidere il filo che rappresenta il tragitto della nostra esistenza. Questa idea della circolarità prende indubbiamente il senso della ripetizione come molto tempo fa lasciò intendere Søren Kierkegaard, parlando della ripetizione come ‘d’un ricordare in avanti’, e non come d’un semplice richiamare alla memoria, d’una ricostruzione a ritroso del passato. Il fascino per la circolarità non è soltanto un tratto della classicità, ma è stato a lungo un tratto distintivo della mentalità italiana. Basti pensare ai ‘corsi storici’ di Giambattista Vico (1668-1744) o alla circolarità di cui parla Benedetto Croce (1866-1952).Questa tematica è prettamente italiana, e l’installazione di Velasco Vitali la rende evidente dal momento che se si torna a vedere la mostra, si noterà che l’artista ri-presenta ancora una volta, ossia presenta in altro modo, le sue opere e le sue idee. Le opere non saranno cambiate, ma probabilmente la nostra sensibilità e le nostre reazioni da spettatori si saranno evolute in seguito al nostro passaggio nella galleria trasformata in labirinto.